Alzheimer, patogenesi e approcci terapeutici

GIANLUIGI FORLONI

Dipartimento di Neuroscienze, Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, Milano.

Pervenuto il 24 luglio 2025. Accettato il 25 luglio 2025.

Riassunto. L’elaborazione della grande quantità di informazioni fisiopatologiche accumulate negli ultimi decenni per lo sviluppo di un’efficiente strategia terapeutica per la malattia di Alzheimer (AD) è una delle principali sfide della ricerca biomedica dei nostri giorni. Storicamente gran parte della strategia terapeutica nella AD si è concentrata sull’aggregazione e il metabolismo della proteina β-amiloide, sebbene anche altri aspetti della patogenesi dell’AD, inclusi l’aggregazione della proteina tau, l’infiammazione, le alterazioni mitocondriali, lo stress ossidativo e le alterazioni di membrana, siano stati presi in considerazione. La validazione di questi target è stata fornita in diverse condizioni sperimentali, ma non ha poi trovato, tranne qualche rara eccezione, conferma negli studi clinici. Vista la complessità della malattia l’adozione di strategie combinate di diversi trattamenti appare come una ragionevole opzione, sebbene solo recentemente sia stata presa seriamente in considerazione. Secondo i principi della medicina di precisione una selezione appropriata dei pazienti dovrebbe guidare l’approccio curativo basato su una strategia multi-target. Analisi genetiche e biologiche in una fase molto precoce della malattia potrebbero contribuire a identificare profili specifici per stratificare i soggetti da trattare con diverse combinazioni di molecole attive.

Parole chiave. Danno mitocondriale, dimorfismo sessuale, infiammazione, medicina di precisione, terapie combinate.

Alzheimer’s disease, pathogenesis and therapeutic approaches.

Summary. The translation into an efficient therapeutic strategy for Alzheimer’s disease (AD) of the enormous amount of physiopathological information accumulated in the last decades is one of the main challenges in biomedical research. A large part of the therapeutic strategy in AD has focused on β-amyloid aggregation and metabolism, although other aspects of AD pathogenesis, including tau aggregation, inflammation, mitochondrial alterations, oxidative stress, and membrane disruption, have also been considered. The validation of these targets has been provided in various experimental conditions with scarce confirmation at the clinical level, but the combination of different treatments has been poorly investigated. According to the principle of precision medicine, an appropriate selection of the patients should guide the curative approach based on a multi-target strategy. Genetic and biological analyses in a very early phase of the disease might contribute to identifying specific profiles to stratify the subjects to be treated with different combinations of active molecules.

Key words. Combination therapies, inflammation, mitochondrial damage, precision medicine, sexual dimorphism.

Introduzione

L’associazione con l’invecchiamento e il lungo periodo asintomatico caratterizzano bene la complessità della malattia di Alzheimer (AD); l’apparizione dei sintomi clinici avviene generalmente 10-15 anni dopo l’inizio del processo biologico responsabile della malattia. Durante questa fase preclinica, varie alterazioni possono contribuire allo sviluppo della malattia; la deposizione extracellulare di β-amiloide (Aβ) nelle placche senili è considerata il primo evento patologico, seguito da neuroinfiammazione, dalla formazione di grovigli neurofibrillari (NFT) e dalla disfunzione neuronale che coinvolge stress ossidativo, alterazioni mitocondriali e danni vascolari. All’insorgenza della malattia, la perdita sinaptica è il cambiamento strutturale che meglio correla con l’evidenza clinica del declino cognitivo; la diffusione degli NFT formati da proteina tau iperfosforilata è parzialmente associata allo sviluppo clinico della malattia, mentre la diffusione delle placche senili non correla con i sintomi clinici. La presenza di oligomeri, piccoli aggregati solubili di Aβ che possono diffondersi nel parenchima cerebrale, potrebbe spiegare questa discrepanza, poiché il contenuto totale di Aβ, comprese le forme monomeriche, solubili e non solubili, è invece associato al declino cognitivo1. Anche le forme oligomeriche di proteina tau stanno acquisendo un ruolo patogenetico rilevante non necessariamente associato alla presenza degli NFT2. Nello scenario patologico di AD oltre alla neuroinfiammazione, l’alterato metabolismo glucidico e la disfunzione mitocondriale che inducono una deficitaria utilizzazione del glucosio cerebrale nei neuroni e nelle cellule microgliali, potrebbero contribuire alla neurodegenerazione in AD. Con l’identificazione della sequenza di Aβ e il cloning del gene che codifica la proteina precursore dell’amiloide (APP), la biologia dell’AD ha iniziato ad essere meglio compresa e le strategie per sviluppare farmaci che interferiscono con la progressione della malattia hanno mosso i loro primi passi. I depositi di Aβ e il metabolismo di APP sono così divenuti target terapeutici preferenziali. Accanto ad altri trattamenti anti-amiloide, la vaccinazione attiva con Aβ ha dato risultati positivi a livello sperimentale. Tuttavia, dopo numerosi tentativi, solo oggi questo approccio sembra mostrare una certa efficacia a livello clinico. Oltre ad analoghi tentativi che hanno avuto come target la proteina tau iperfosforilata e gli NFT3 durante gli ultimi due decenni sono stati proposti altri trattamenti farmacologici e non farmacologici con diversi bersagli terapeutici in AD; i risultati incoraggianti a livello sperimentale hanno trovato poche conferme quando trasferiti in ambito clinico. A partire dalla multifattorialità e dalla complessità della malattia, i motivi di questi insuccessi sono numerosi, incluso la tempistica del trattamento, il disegno inadeguato dello studio, le difficoltà nella selezione dei pazienti, e, in qualche caso, un’interpretazione eccessivamente favorevole dei dati preclinici. Riconsiderare questi trattamenti in un’ottica più evoluta che da un lato combini diverse terapie e dall’altro sia in grado di selezionare in maniera adeguata i pazienti è l’obiettivo di medio periodo che val la pena perseguire con determinazione per affrontare in maniera razionale la complessità della AD.

Patogenesi

Negli ultimi tre decenni i meccanismi patogenetici responsabili della disfunzione neuronale nella AD sono stati oggetto di migliaia di studi inizialmente focalizzati sul ruolo dei depositi di Aβ e sulla formazione di NFT, successivamente estesi ad altri componenti dello scenario patologico. La conoscenza nella patogenesi della AD ha ricevuto contributi fondamentali dalla genetica molecolare, dall’analisi di immagine, dagli esami neuropatologici e dagli studi biochimici. Dopo l’invecchiamento, la familiarità è il secondo principale fattore di rischio nella AD; tuttavia, i casi di natura strettamente genetica sono limitati al 5-6% della totalità e generalmente associati a un esordio precoce della malattia. La forma autosomica dominante (ADAD) è associata a mutazioni localizzate su geni che codificano per APP, presenilina 1 e 2 (PS1, PS2) con una penetranza vicino al 100%; quasi invariabilmente gli individui con queste mutazioni sviluppano la malattia. Il carico cerebrale di Aβ nella ADAD rispetto alla AD sporadica è più abbondante e la deposizione di Aβ nei gangli della base è prominente4. Nonostante queste differenze e l’esordio anticipato dell’insorgenza della malattia, i fenotipi clinici e neuropatologici di ADAD e AD sporadica sono simili, come recentemente confermato da un’analisi fisiopatologica estesa di Morris et al5. Questa acquisizione ha due importanti conseguenze: la prima è che poiché tutte le mutazioni sono direttamente associate alla produzione di Aβ ciò rappresenta l’evidenza principale a favore del ruolo diretto di Aβ nella patogenesi della malattia. Il secondo elemento importante è che i risultati derivanti da indagini in ADAD possono essere in parte estesi alla totalità dei casi di AD. Analogamente, i risultati ottenuti in modelli sperimentali, essenzialmente basati su mutazioni genetiche associate alla malattia, sono informativi per l’intera popolazione AD. Vale la pena sottolineare che studi longitudinali mediante risonanza magnetica in due diversi topi transgenici, modelli di AD, hanno mostrato alterazioni cerebrali reminiscenti della ADAD, incluso il coinvolgimento delle aree striatali6. Insieme alle mutazioni autosomiche dominanti, l’allele ε4 di ApoE è stato identificato come il principale fattore di rischio genetico in AD; la presenza di questo allele anticipa lo sviluppo della malattia e la deposizione di Aβ di circa dieci anni. Sebbene ApoE ε4 spieghi una quota significativa della familiarità nella AD, la trasmissione non segue un pattern autosomico dominante e la presenza di questo allele non è invariabilmente associata allo sviluppo della patologia. Gli individui portatori di ApoE ε4 hanno un aumento del rischio di progressione a disturbo cognitivo lieve (MCI) o demenza (rapporto di rischio di 2.0 e 2.1)7; il rischio raddoppia nei soggetti positivi per amiloide, determinato dall’analisi con tomografia a emissione di positroni (PET) (rapporto di rischio 4.5), mentre negli individui non portatori di ApoE ε4 la positività per amiloide non influisce sul rischio di sviluppo della malattia7. Questa interessante osservazione indica un’influenza di ApoE ε4 sulla deposizione di Aβ e, come emerge da indagini neuropatologiche e vari studi clinici, conferma la presenza di un fenotipo fisiopatologico specifico dei portatori di ApoE ε4. Le potenziali influenze nella patogenesi della AD da parte di ApoE ε4, possono modificare in modo sostanziale l’efficacia degli approcci terapeutici, ponendo le basi per un approccio personalizzato basato sul profilo genetico del paziente. Numerose altre alterazioni geniche sono state associate allo sviluppo della AD. Insieme al metabolismo di APP e tau, l’elaborazione più recente indica che i loci di suscettibilità nella AD sono associati a geni coinvolti in molteplici vie biologiche: la neuroinfiammazione e il sistema immunitario innato (es. CR1, CD33, TREM2, MS4A), il metabolismo del colesterolo (­ABCA7, CLU) e il traffico endosomiale (PICALM, BIN). Particolarmente interessante è il ruolo svolto da TREM2, un recettore immunitario esclusivamente espresso nella microglia cerebrale, l’associazione delle mutazioni del gene che codifica per TREM2 con AD indica una componente non neuronale nella patogenesi della malattia8. Le mutazioni per il gene che codifica per TREM2 sono associate ad una minore capacità fagocitaria delle cellule gliali.

Infiammazione e dimorfismo sessuale

Numerosi sono i dati sperimentali che attribuiscono un ruolo all’infiammazione virtualmente in tutte le malattie neurodegenerative; in AD le evidenze genetiche e i dati clinici sembrano convergere nell’indicare l’attivazione gliale a livello cerebrale, ma anche la componente sistemica come elemento non trascurabile dello sviluppo patologico. In alcuni modelli sperimentali il danno neuronale indotto da oligomeri di β-amiloide è associato ad un’attivazione gliale, nei nostri laboratori abbiamo potuto dimostrare che l’attivazione gliale mediata dai TLR-4 (toll-like receptor-4) è componente essenziale del danno cognitivo indotto da oligomeri iniettati a livello cerebrale9. Sebbene la fagocitosi da parte della microglia e degli astrociti attivati abbia un ruolo benefico di sorveglianza nella rimozione di detriti e agenti dannosi, in determinate condizioni, se l’attivazione è protratta e deregolata, può contribuire alla disfunzione sinaptica e neuronale. Il protrarsi di una attivazione delle cellule gliali può derivare da un’esposizione persistente a stimoli infiammatori o da una inadeguata risoluzione della risposta immunitaria. Entrambi i meccanismi sono importanti in AD e portano ad un’infiammazione cronica persistente. D’altro canto diversi meccanismi neuroprotettivi nel contesto della AD sono riconducibili ad attività anti-infiammatoria inclusi quelli relativi all’asse microbiota-intestino cervello10.

In contrasto con quanto avviene in altre malattie neurodegenerative e agli stessi fenomeni legati all’invecchiamento in AD c’è una chiara prevalenza del sesso femminile, il rapporto tra i pazienti è di quasi due a uno a danno delle donne. Le indicazioni emerse dalle indagini sperimentali sul ruolo dell’infiammazione nella patogenesi della AD legata al sesso sono confermate da diversi studi nell’uomo, dove sia l’infiammazione centrale che quella periferica possono influenzare in modo differenziale la progressione patologica della malattia nei due sessi. Una meta-analisi di oltre cento studi su soggetti con MCI e AD suggerisce che livelli elevati di IL6 e YKL40 possano riflettere l’attività infiammatoria microgliale in entrambe le condizioni, ma diversi altri marcatori dell’infiammazione sono alterati in maniera diversa nei due sessi11. Gli autori indicano nella diversa condizione ormonale e nel rapido declino della produzione di estrogeni nella fase menopausale nella donna le possibili ragioni di queste differenze, tuttavia non è tutto riconducibile solo a questi fenomeni. Una risposta immunitaria alterata associata a differenze di sesso nella patogenesi della AD è stata dimostrata dall’analisi di set di dati trascrittomici nella corteccia prefrontale di pazienti e individui di controllo abbinati per età. La scoperta di diversi geni co-espressi che mostrano una correlazione positiva con l’AD, il genere e l’invecchiamento correlate all’immunità ha rivelato significative disparità tra i sessi. In particolare, l’esame di set di dati snRNA-seq ha rivelato variazioni nella proporzione di microglia attivate, profili trascrittomici modificati e interazioni tra microglia e altri tipi di cellule cerebrali nei controlli femminili. I geni che sono sovraespressi nelle microglia femminili, inclusi TLR2, MERTK, SPP1 e FKBP5, potrebbero essere riconosciuti come marcatori per la differenziazione della condizione AD12. Nel liquor di soggetti a rischio AD ma non ancora compromessi cognitivamente, Vila-Castelar e colleghi13 hanno dimostrato una buona correlazione tra parametri dell’infiammazione e alcune alterazioni cerebrali associate ad AD, ancora una volta le variazioni erano sesso-dipendente. In generale queste evidenze hanno due conseguenze: da un lato la necessità di sviluppare approcci terapeutici differenziati per sesso in AD come in altre patologie neurodegenerative14, dall’altra confermano come l’infiammazione può essere un target terapeutico fondamentale nella malattia.

Numerosi sono gli approcci farmacologici associati all’infiammazione in AD che si sono sviluppati nel corso degli ultimi anni grazie agli studi sperimentali ma anche grazie a evidenze epidemiologiche. Nei nostri laboratori abbiamo dimostrato che l’azione neuroprotettiva della doxiciclina, un antibiotico con attività anti-amiloidogenica15 in diversi modelli sperimentali AD, è riconducibile alla sua attività anti-infiammatoria16 mediata dai recettori TLR-4. I TLR partecipano all’attivazione dell’inflammasoma NLP3, un complesso multi proteico del sistema immunitario che gioca un ruolo chiave nella neuroinfiammazione. In modelli cellulari la risposta immunitaria indotta da oligomeri di β-amiloide è completamente antagonizzata da farmaci che interferiscono con l’inflammasoma17. Interessante notare come l’attivazione dell’inflammasoma NLP3 sia coinvolta sia nell’infiammazione sistemica18 che nei fenomeni infiammatori associati all’asse microbiota intestinale-encefalo19, la sua regolazione ha quindi un ruolo chiave in AD per diversi aspetti.

Il fattore nucleare delle cellule T attivate (NFAT) è uno dei principali fattori di trascrizione che guidano l’espressione dei geni infiammatori e regolano così le risposte immunitarie. La produzione di mediatori infiammatori dipendente da NFAT è controllata dalla calcineurina (CaN), una fosfatasi proteica dipendente da Ca2+, che de-fosforila NFAT e ne promuove l’attività trascrizionale. Abbiamo dimostrato che la riduzione dell’attività CaN esclusivamente negli astrociti, migliora complessivamente il quadro neuropatologico e comportamentale in topi AD20 costituendo un interessante target terapeutico.

Recentemente si sono accumulati diversi dati sia clinici che sperimentali in favore dell’azione neuroprotettiva di farmaci agonisti recettoriali del glucagon-like peptide 1 (GLP1-RA), inizialmente sviluppati come farmaci anti-diabete (diabete di tipo 2 insulina-resistente, T2DM) hanno trovato via via applicazione in diversi settori21. Nei soggetti trattati con GLP1-RA si riduce il rischio di sviluppare AD22, questa evidenza ha dato il via ad uno studio formale sull’efficacia della semaglutide in AD, i cui risultati saranno disponibili per la fine dell’anno. Il meccanismo con cui i GLP1-RA possono esercitare un’azione neuroprotettiva nel contesto delle malattie neurodegenerative ed in particolare nell’AD si basa sulle affinità tra questa malattia e T2DM: l’azione di potenziamento del metabolismo del glucosio ha una ricaduta positiva anche a livello cerebrale23 ed è rilevante per controllare l’infiammazione e ridurre il danno mitocondriale.

Danno mitocondriale

Il danno mitocondriale è un altro importante elemento dello scenario patologico in AD. Come è noto il consumo energetico delle cellule nervose è particolarmente elevato e produce specie reattive dell’ossigeno (ROS) che hanno a loro volta i mitocondri e i lipidi come bersagli vulnerabili. Lo stress ossidativo e l’infiammazione interagiscono e si stimolano a vicenda, ampliando la reazione a cascata nel processo patologico. I ROS inducono danni cellulari, producendo componenti tossici e attivando la risposta infiammatoria, mentre le citochine e le chemochine infiammatorie che inducono l’ulteriore rilascio di citochine e ROS, amplificando lo stress ossidativo. Nel sistema nervoso centrale, l’attivazione della microglia e gli astrociti sviluppano la risposta infiammatoria ma sono anche responsabili della generazione di ROS.

La funzione mitocondriale diminuisce progressivamente con l’invecchiamento e in AD, portando a una riduzione della produzione di adenosintrifosfato e a un aumento della generazione di ROS, danneggiando ulteriormente l’apporto energetico e la funzione mitocondriale. I ROS compromettono anche la biogenesi mitocondriale, attenuano la mitofagia e disturbano la dinamica mitocondriale, causando difetti nella scissione e fusione. Il ripristino della dinamica mitocondriale riduce i livelli di superossido nei mitocondri.

Le mutazioni del mtDNA svolgono un ruolo cruciale nella disfunzione mitocondriale correlata ad AD. Il sequenziamento ad alta sensibilità che permette di valutare correttamente il carico mutazionale del genoma mitocondriale, ha mostrato un aumento significativo nella frequenza delle mutazioni del mtDNA nell’ippocampo di individui con AD precoce. Inoltre, Krishnan e colleghi24 hanno messo in evidenza come alti livelli di delezione del mtDNA portino carenza di COX (cytochrome-c oxidase), indice di disfunzione mitocondriale, e hanno osservato un aumento di neuroni con ridotta attività mitocondriale nell’ippocampo di pazienti con AD sporadica. Studi recenti hanno rilevato alterazioni epigenetiche mitocondriali nel sistema nervoso centrale, nel liquido cerebrospinale e nella periferia. In particolare, la metilazione del mtDNA emerge come uno dei fattori chiave che possono regolare la patologia mitocondriale in AD. Blanch e colleghi25 hanno trovato un aumento della metilazione del mtDNA sia nei siti CpG che nei siti non-CpG all’interno della regione D-loop della corteccia olfattoria interna in pazienti affetti da AD rispetto ai controlli. Complessivamente, questi risultati suggeriscono che il mtDNA ha un potenziale significativo come biomarcatore e obiettivo terapeutico in AD26. In soggetti con decadimento cognitivo sono state osservate alterazioni epigenetiche di geni nucleari che codificano per proteine associate all’attività mitocondriale. In particolare geni che codificano per proteine coinvolte nel metabolismo del glucosio mitocondriale e degli acidi grassi e nello stress ossidativo sarebbero metilati in modo differenziale tra la popolazione generale e i soggetti MCI e AD27. Come per gli altri fenomeni osservati, anche i danni indotti dallo stress ossidativo possono essere causa o conseguenza di altri meccanismi rilevanti per la patogenesi di AD. Tuttavia il recupero di un’attività mitocondriale vicina alla norma, adeguatamente monitorato, può essere una componente essenziale nella strategia terapeutica in AD.

Prospettive terapeutiche

Oltre tre decenni dopo il sequenziamento del gene che codifica per la proteina precursore dell’amiloide, considerato un passaggio fondamentale nel chiarire la patogenesi della AD, solo ora cominciamo ad avere feedback positivi con trattamenti che riducono il carico cerebrale di amiloide. Oltre all’amiloide, numerosi altri target sono stati esplorati a livello sperimentale con risultati incoraggianti che, tuttavia, non hanno poi trovato una conferma di efficacia clinica. Diversi sono i motivi che possono spiegare questi risultati negativi: le caratteristiche multifattoriali della malattia, il timing di trattamento e la selezione dei pazienti sono probabilmente le maggiori difficoltà da affrontare in combinazione con la mancanza di marcatori biologici affidabili, sebbene quest’ultimo fattore sia in via di risoluzione. L’importanza dei risultati recentemente ottenuti con anticorpi anti-amiloide è fondamentale sul piano teorico (finalmente un trattamento efficace dopo numerosi fallimenti), ma sul piano della pratica clinica l’impatto reale deve ancora essere valutato in maniera adeguata. La disamina dell’effettivo impatto passa attraverso diverse valutazioni: l’efficacia non risolutiva del trattamento, la presenza di effetti secondari non trascurabili ed infine la sostenibilità economica e logistica per il sistema sanitario pubblico. La stessa selezione dei pazienti proposta negli studi con donanemab usando PET per determinare preliminarmente l’accumulo cerebrale di proteina β-amiloide e di proteina tau e successivamente l’efficacia del trattamento28 se da un lato dà garanzie sull’adeguatezza del trattamento dall’altro implica l’uso di strumentazioni costose e non sempre disponibili. Diversi marcatori nel liquor e nel plasma sono stati proposti, compresi NFl, GFAP e pTau-21729 per la valutazione diagnostica e il monitoraggio dell’efficacia terapeutica, ma quanto efficacemente la loro misura possa sostituire l’analisi di imaging deve ancora essere dimostrato. Pertanto, l’introduzione dei primi trattamenti in grado di modificare la progressione della malattia nella pratica clinica richiede di superare molte difficoltà e, anche quando tutte le condizioni sono controllate, l’efficacia degli anticorpi non appare definitiva. Tuttavia, dopo numerosi tentativi, è ora possibile rimuovere dal cervello i depositi di β-amiloide, fornendo un buon punto di partenza per approcci più elaborati alla malattia. La natura complessa della AD richiede l’uso di terapie multi-target, una terapia basata su un singolo trattamento è insufficiente. Pertanto, attenendosi al principio della medicina di precisione, l’efficacia di farmaci con meccanismi diversi può essere testata in individui a rischio di sviluppare AD ed esplorata insieme ad altre terapie neuroprotettive, ma solo dopo una selezione accurata dei partecipanti alla sperimentazione. Trattamenti mirati possono essere guidati dai biomarcatori, soggetti con un decadimento cognitivo iniziale, inclusi coloro che segnalano un declino cognitivo soggettivo, dovrebbero essere valutati a diversi livelli. I soggetti affetti da MCI idonei a molteplici trattamenti dovrebbero essere selezionati attraverso fasi progressive di esame, utilizzando test neuropsicologici, analisi biochimiche nei fluidi biologici, imaging quando possibile, e una caratterizzazione finale più specifica del profilo infiammatorio. In questa direzione, Lista e colleghi30 hanno recentemente proposto di monitorare i marcatori infiammatori (GFAP, YKL-40 e sTREM2 nel plasma e nel liquido cerebrospinale) nei pazienti affetti da AD per migliorare le strategie terapeutiche. Oltre all’infiammazione, dovrebbe essere indagata l’eterogeneità della popolazione cognitivamente compromessa per selezionare diversi profili; indagini multimodali integrate con metodologie basate sull’intelligenza artificiale possono essere utilizzati per creare profili aggiuntivi, come quelli vascolari o mitocondriali, rilevando il peso delle diverse componenti in grado di distinguere traiettorie patologiche differenti15. Un approccio simile è stato proposto da Li Vok e colleghi31 e necessita di verifiche pratiche e del monitoraggio dei diversi parametri biologici per affinare sempre meglio i profili più o meno sensibili alle diverse combinazioni farmacologiche. Senza dimenticare i farmaci anti-tau, strumenti farmacologici e non farmacologici a disposizione di strategie terapeutiche evolute esistono, si tratta di adottarli nella maniera più razionale possibile per irrobustire l’efficacia e trasferire appropriate indicazioni nella pratica clinica.

Conflitto di interessi: l’autore ha percepito diritti d’autore da Il Pensiero Scientifico Editore – soggetto portatore di interessi commerciali in ambito medico-scientifico.

Acknowledgments: questa pubblicazione è stata realizzata con il contributo non condizionante di Novo Nordisk S.p.a.

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